venerdì 16 marzo 2018

La Terra del Ferro e del Fuoco - Cap VIII - La scienza elevata agli altari

Martin procede all'ispezione della casa del Professor Battirani, una bella villetta bifamiliare in quel di Torre, circondata da piante di gelsomino fiorito. Tra una citazione di Horkheimer e la scoperta di un immaginario scientifico di tutto rispetto, Martin si ricorda di essere sempre stato "nemico dei numeri"

La scienza elevata agli altari


La scienza elevata agli altari. Esattamente questo era l’incipit del secondo capitolo del manoscritto del Professore. Martin stabilì che il luogo più adatto per leggerselo fosse proprio la casa di Battirani.
Decise quindi di attivare immediatamente Leo.
“ Fammi capire. Mi stai chiedendo se puoi accompagnarmi, o meglio se ti posso accompagnare, a fare un sopralluogo a casa del Professore, perché tu possa accomodare le tue natiche sul divano del suo salotto e leggertelo dove è stato concepito?”
Proprio così
“ Ma tu sei tutto scemo!”
Anche questa era un’opinione che molte persone avrebbero trovato plausibile ed assolutamente condivisibile.
“ E cosa gli racconto ai miei superiori? Solo nei telefilm è possibile che i poliziotti portino sui luoghi delle scomparse delle persone esterne. Di solito sono dei medium o interlocutori di fantasmi. Tu a che categoria appartieni?”
“ A quella di coloro che non guardano ‘ste stronzate in tv. Dai sali in macchina. Chi vuoi che venga a controllare con chi vai a fare un sopralluogo. Battirani non ha parenti e ai vicini non dobbiamo mostare distintivi come fanno nei polizieschi americani. E poi scusa, non ho il fisique du role per fare l’esperto della scientifica?
Guarda ho anche questi pregevoli occhiali da sole….” - disse Martin che per un nanosecondo aveva accarezzato la malsana idea di tingersi i capelli di rosso come Horatio Caine della serie CSI Miami, suo personale idolo in quella frazione, e solo in quella, di secondo.
Leo scrollò la testa. Entrò nella macchina di servizio e ingranò la marcia.
Arrivarono in poco tempo al quartiere di Torre, dove era situata la casa dei Battirani. Il quartiere era il più antico insediamento del territorio comunale,con resti di una villa romana e il medievale castello dei Conti di Ragogna che vi infondeva la sua benevola ed austera influenza.
Quella calda giornata tardo primaverile invogliava a fare una passeggiata piuttosto che a rinchiudersi in casa. L’abitazione del Professore era una piccola villetta bifamiliare circondata da odorose piante di glicine e gelsomino che si adagiavano pacificamente su una mura bianca in calce viva. All’interno del giardino si vedeva un piccolo tavolinetto sempre bianco ed in ferro battuto, circondato da quattro cinque sedie nello stesso stile. Martin, probabilmente ispirato dalla gran calura, si immaginava Battirani lì seduto che conversava amabilmente, sorseggiando qualche bibita con gli amici. Ma quanti e quali amici avrà avuto il Professore? Da quando era scomparso la loro preoccupazione più grande era stata quella di cercare di ricostruire la sua vita quotidiana, ma oltre alla testimonianza di Agata e quelle affettuose di conoscenti ed ex alunni o colleghi, non erano riusciti a ritrovare nessuno che potesse definire un amico stretto di Battirani. Che fosse stata anche questa una delle cause della sua improvvisa sparizione?
Martin e Leo entrarono dal cancello principale e passarono all’interno del piccolo porticato che conduceva all’ingresso dell’abitazione. Nel mentre, dal balcone di una casa attigua, si affacciò una presunta vicina. Presentava sicuramente caratteristiche interessanti e degne di essere approfondite. Leo lanciò un’occhiata a Martin.
“ Vai pure a fare il tuo lavoro” – disse Martin, conciliante – “ sicuramente avrà delle notizie interessantissime da darti. Tranquillo, qui ci penso io. In bocca al lupo.”
“ Crepi “ – sussurrò Leo e quindi procedette impettito e marziale verso la casa della vicina. Martin lo udì pronunciare un cordiale e simpatico “Buongiorno” con voce impostata e decisamente troppo sonora. Scosse la testa e aprì la porta d’ingresso.
La frescura che trovò all’interno lo sorprese piacevolmente. Si asciugò con una mano i rivoli di sudore che gli scorrevano copiosi lungo la fronte e iniziò a guardarsi intorno.
Era tutto meno polveroso di quanto avesse immaginato: evidentemente Agata aveva fatto un buon lavoro. Nonostante questo a Martin sembrava di sentire un tipico odore di legno e qualcos’altro di indefinibile che secondo lui avvolgeva le case d’antan. Ovviamente l’arredamento non lasciava nessuna concessione alla modernità, ma traspariva un po’ ovunque il gusto e la ricerca per l’ordine e la sobrietà. Martin iniziò a trotterellare senza metà, non sapendo bene cosa cercare e dove guardare. Era sicuro che i colleghi di Leo avessero già fatto un ottimo lavoro e quindi evitò accuratamente di svolgere la tipica perquisizione. Era in caccia di sensazioni, particolari curiosi o inconsueti che riteneva gli avrebbero fatto capire meglio la personalità o le motivazioni di Battirani. Quindi si avvicinava e osservava attentamente tutte quelle cose che attiravano la sua attenzione, cercando di interrogarle ed ottenere qualcosa.
Vide su una parete alcuni quadretti con delle immagini sacre e questo lo turbò.
Magari erano della moglie, si disse. Non riusciva a capacitarsi, non si sa bene per quale motivo, che una persona di scienza, e quindi, per assioma, razionale, potesse avere anche dei convincimenti religiosi. A Martin pareva un controsenso. Come se fosse stata una cosa proibita o in qualche modo contronatura.
Si diresse poi verso il salotto, nel quale stazionava una gigantesca libreria che lo attirava magneticamente.
Prima di arrivarci però c’era da superare una difficile tentazione: una grande, e sicuramente accogliente e confortevole poltrona.
Martin, notoriamente sportivo, non ce la fece a resistere e si fece fagocitare da quel seducente artifatto in pelle.
Ah… comodità assoluta.
“ Si suppone che tu sia venuto qui per lavorare, non per fare il fannullone spaparanzato in poltrona! “ – intervenne la sua virtuosa vocina interna
“ Non si potrebbe avere anche un drink? “ – la interruppe la sua omologa un po’ più cinica.
Martin decise che era ora di proseguire nella lettura. Estrasse quindi dalla valigetta che si era portato appresso il consueto bustone giallo ocra.
Dove eravamo rimasti? Ah già!

La scienza elevata agli altari

E’ impossibile stabilire a priori quale parte la scienza giochi nel progresso o nel regresso della società: i suoi effetti da questo punto di vista sono negativi o positivi come è la funzione che essa assume nell’andamento generale del processo economico
(Max Horkheimer)

Le esaltanti e sino a pochi anni fa impensabili scoperte scientifiche applicate ai processi di produzione e di consumo sempre più personalizzati, la globalizzazione del mercato, con il conseguente aumento della libertà di impresa e dell’efficienza produttiva (rapida espansione della capacità di azione delle aziende, aumento della qualità e riduzione dei costi di diversi prodotti) avrebbero potuto ingenerare la “mitica” chimera che siamo sulla strada del benessere, della felicità, della cultura…
Ma al contario la vertiginosa evoluzione del XX secolo mostra chiaroscuri sospetti, ambigui contorni, direzioni ambivalenti.
Tanto da risultare problematici e spesso contraddittori ad una lettura interpretativa.
Basti pensare alle infami strumentalizzazioni della scienza da parte della tecnica, secondo la logica (perversa) dell’asservimento delle nobili finalità della ricerca ai profitti di ogni genere da essa derivabili.
La logica inaccettabile – così cara alla logica formale, che confonde i mezzi con i fini – di una scienza che avrebbe dovuto “reggere il mondo” e garantire un “sicuro progresso” portava già in sé i germi della sua decadenza; in quanto non teneva, umilmente, in debito conto che alla lunga distanza si sarebbe dimostrata incapace di gestire le conseguenze delle sue applicazioni e di calcolarne gli effetti, non di rado devastanti.
Si insegni, piuttosto, sin dai primi anni della scuola di base, che abbiamo ancora bisogno di stupirci del dono della vita, la quale va amata e rispettata in ogni forma di biodiversità.

Già la scienza… Possibile che la casa di uno scienziato non avesse neanchè qualche attrezzo scientifico?
La curiosità fu più forte della naturale pelandronite, che Martin violentò il suo istinto più profondo e si rimise in piedi, pronto a nuove ed entusiasmanti indagini.
Nei classici libri il laboratorio dello scienziato, possibilmente pazzo, si trova di prassi nel misterioso sottoscala.
Martin vi si diresse immediatamente, trovandovi solamente alcune notevoli bottiglie di vino pregiato e svariati esemplari di ragni.
Sarebbe restato estremamente appagato dei risultati della ricerca se avesse indagato sulla scomparsa di un entomologo o se il padrone di casa fosse stato presente e gli avesse offerto un assaggio del prezioso liquido. Non essendo soddisfatta nessuna delle due condizioni, Martin rifece, a fatica, le scale e ritorno al punto di partenza con la coda tra le gambe.
Se avesse avuto un po’ più di pazienza Martin avrebbe scoperto che il Professore aveva stabilito il proprio piccolo laboratorio nella stanza attigua al salotto e si sarebbe risparmiato la faticosa discesa (e risalita) agli inferi del sottoscala che poi si sostanziava in scalini cinque.
Arrivato finalmente a destinazione iniziò ad esaminare con sguardo vigile i vari scaffali.
Con piacere si stupì di riuscire a ricordare ancora i nomi degli arnesi che vedeva davanti ai propri occhi: il primo che inquadrò lo fece sorridere. Era una beuta, un recipiente a forma di imbuto rovesciato, quindi svasato sul fondo. A Martin ritornarono in mente i semplici esperimenti di chimica che aveva svolto durante le ore di scienze nel periodo liceale. Un giorno, maneggiando una beuta, lanciò uno sguardo alla compagna di classe che occupava il posto davanti al suo e che gli stava notoriamente simpatica. Ebbe un’illuminazione: essere umano e recipiente avevano indubitabilmente la stessa forma. Si sentì in dovere di condividere questa sua fondamentale scoperta con il resto della classe e divenne di diritto l’eroe di giornata.
Rinvigorito da questo ricordo spassoso iniziò, con fanciullesco piacere, ad enumerare tutti gli strumenti che vedeva davanti a sé, riempiendosi con gioia la bocca di questi nomi dal carattere desueto e quasi esoterico: pipetta, buretta, becher, dinamometro, Bunsen e perfino, quale emozione! Il generatore di Van Der Graaf!
Di alcuni sapeva l’utilizzo, altri gli erano assolutamente indifferenti.
Martin riflettè. Aveva sempre avuto un approccio, diciamo così poetico ed inventivo alle materie scientifico-pratiche. Se non c’erano da fare calcoli erano anche divertenti.
Di prassi evitava di studiarle, a meno che non ci fosse qualche argomento che lo interessava in modo particolare. Purtroppo, però, doveva sottoporsi ai pressanti interrogatori delle inflessibili professoresse. Quale occasioni migliori per fornire, attraverso complicatissimi giri di parole, risposte fantasiose e sostanzialmente inventate ai quesiti?
Talvolta la cosa era agevolata dall’assurdità delle domande, che erano del genere:
“Ehm, Martin, mi parli della vita sociale della Drosophila, o moschino da frutta”
Martin rimase turbato: persino i moschini della frutta avevano una vita sociale, perché lui no? In ogni caso, si ricordava di esserne uscito brillantemente. Ora però era nata in lui una curiosità irrefrenabile. Si appuntò mentalmente di compiere una ricerca approfondita sull’argomento non appena rientrato a casa. Non poteva restare dubbioso su un argomento tanto fondamentale.
In ogni caso ricordava con piacere le ore passate nei laboratori di fisica, chimica e biologia. Erano degli spaccati interessantissimi di vita in comune spesso forieri di episodi divertenti o memorabili. Negli anni novanta venivano ancora proiettati dei filmati degli anni ’50, veramente degni di nota, con lo scienziatone di turno che tentava di rendere immediata la comprensione di argomenti alquanto nebulosi, mediante l’uso di disegni, esempi pratici e studiatissime gag.
Ripensandoci, a Martin pareva di aver vissuto all’interno di alcuni episodi dei Simpson: tutti quelli nei quali alla scuola elementare di Springfield venivano proiettati i filmini educativi nei quali comparivano Troy McLure o Rainer Wolfcastle.
Lo svolgimento era più o meno simile: compariva un personaggio azzimato, una specie di figura hitchcockiana (nel senso che avevano lo stesso incedere, la corporatura, e, talvolta, anche lo stesso tono di voce, probabilmente lo stesso doppiatore, del grande Alfred) un po’ smagrita che esordiva con un:
“ Salve sono il Professor Tal dei Tali. Forse vi ricorderete di me per altri filmati come Viaggio avventuroso nel Moto Uniformemente Accellerato o Attrito: il miglior amico dell’ uomo”.
Nessuno si ricordava mai dei filmati precedenti, ma la risata collettiva era assolutamente matematica.
Le avventure in laboratorio erano poi sempre ricche di soddisfazioni. La professoressa era riuscita ad accattivarsi la simpatia, specie della parte maschile della classe, già dal primo esperimento che era stato un riuscito esempio di riunione delle conoscenze scientifiche e recupero delle tradizioni culturali locali: la distillazione della grappa. Le bottiglie di vino buono erano state trafugate dalla cantina di un babbo inconsapevole e, ovviamente, per amore della scienza. Martin non avrebbe saputo ripetere il procedimento utilizzato per portare a compimento questa impresa scientifica dal carattere molto friulano, ma ricordava benissimo di aver vagato tutto felice e contento per i corridoi dell’ edificio scolastico sorridendo come un beota a tutti gli esseri femminili che incontrava, compresa Lidia, la decana delle bidelle, che aveva approfittato dell’occasione per raccontargli degli effetti e dei turbamenti che aveva causato la visione del film Basic Instinct sul di lei marito.
Per il resto fu tutto una serie di esperimenti che permettevano a Martin e ai suoi sodali di sfogare le loro peggiori aspirazioni: si ingegnavano per ottenere reazioni che avessero come unico scopo quello di produrre assordanti o puzzolenti peti. Questo metteva in clamoroso imbarazzo la professoressa che aveva uno stile molto british e che si prodigava a giustificare quegli allievi così volonterosi e animati da puri afflati scientifici.
Ogni tanto anche lei però cacciava il carico da undici: che colore si sarebbe mai ottenuto facendo un saggio alla fiamma su quel meraviglioso elemento chiamato stronzio? Ovviamente la risposta corretta era “Rosso Acceso”. Che altro, no?
Un discorso a parte lo meritava il tecnico di laboratorio: l’entusiasta perito Michele. Sole, nebbia, tempesta, neve e tormenta lui arrivava, dall’ultimo lembo della provincia pordenonese, ogni mattina puntualissimo in laboratorio a bordo della sua fiammante bici.
Aveva condiviso con i ragazzi alcuni momenti fondamentali della sua vita personale.
“ Eh allora Michele sei diventato padre! Maschio o femmina?”
“Eh, Femmina, dio bon”
“E come si chiama?”
“Filippo!”
A parte questi incidenti di percorso, Michele amava il suo lavoro, tanto da dover essere ricoverato per aver maneggiato troppo a lungo alcune sostanze pericolose durante un esperimento in laboratorio.
Il suo entusiasmo talvolta era contagioso. Capitava di vederlo intento al microscopio e, pochi secondi dopo, ritrovarlo saltellante per la stanza al grido di:
“ Michela! Vien qua Michela! Vara go trovà un’ameba! Varà l’ameba !”
Martin assicurava che la perfetta imitazione dell’ameba avrebbe riscosso un successone presso il più ampio pubblico televisivo.
Una volta Michele gli aveva ordinato di andare a raccogliere in giardino un campione di acqua da una pozzanghera. Lo avrebbero dovuto esaminare al microscopio.
“ Ades te fae veder un microcosmo: la possanghera” disse sorridendo Michele, come ad indicare un’operazione che era possibile solo a pochi, selezionati adepti. –“ Satu. Ades te vedarà…”
Michele continuava, entusiasta come sempre, ma Martin ormai non lo ascoltava più, totalmente preso dalle fantastiche visioni di buffi e comuni animaletti microscopici che popolavano il microcosmo pozzangheresco. Che pace, che tranquillità vi regnava. Tutti quei piccoli organismi vivevano tra di loro in pace e concordia!
In realtà si accorse dal primo istante che ciò non era vero e che anche in quel mondo infinitesimale si combattevano quotidianamente delle battaglie. Avvicinando l’occhio alla lente del microscopio potè assistere in diretta, come quegli elicotteri delle televisioni americane, all’incalzante inseguimento che l’antipaticissimo e vorace Didinium compiva ai danni di quel placido e bonario essere pancioruto che corrisponde al nome di Paramecium. La sua simpatia incondizionata andava a quest’ultimo e si era trovato a parteggiare, trepidante, sperando nella di lui salvezza. Era una causa persa. L’incontro si concludeva invariabilmente con la stessa scena: il Didinium spalancava le sue smisurate fauci, seconde solo a quelle di alcune vallette televisive, e inglobava l’ignaro Paramecium.
Quella era la realtà.
La realtà!
A Martin, in quei momenti, non fregava niente della realtà, reale, questo era il punto.
Era molto più bello immaginare un microcosmo tranquillo e pacifico. Per quale ragione non avrebbe dovuto esserlo? Cosa lo impediva? Perdio, il suo microcosmo sarebbe stato vitale, ma pacifico. Le piccole lotte e le incomprensioni quotidiane erano inevitabili, ma perché non avrebbe potuto crearsi un minuscolo mondo più tranquillo?
Era possibile!
Ne era convinto e non sarebbe stata una odiosa e stupida osservazione scientifica a fargli cambiare opinione.
Martin si riscosse dal flusso violento dei propri pensieri. Si era veramente infervorato e si ritrovò che stava concionando davanti a degli strani quadretti, brandendo un obsoleto microscopio.
Ripose lo strumento sullo scaffale dal quale, presumibilmente, lo aveva preso. Ed iniziò a scrutare le foto in bianco e nero sul muro. Una in particolare lo colpì: raffigurava il giovane Professor Battirani abbracciato ad una bellissima donna, forse la moglie.
Era circondato da bambini che sembrava lo ascoltassero come rapiti. Era un luogo di montagna, si intuiva dalla vegetazione e il Professore era seduto a cavalcioni su un masso che recava un’iscrizione. Martin la lesse, ma la cosa lo lasciò indifferente.
Decise quindi che il suo dovere era stato compiuto e si avviò a recuperare il suo amico Leo che verosimilmente era ancora impegnato nel suo gioco di seduzione con la vicina di Battirani.
Martin lasciò la porta dell’abitazione dietro di sé e venne accecato dal sole. Nella sua buffa e contorta espressione si sarebbe potuta leggere una gran soddisfazione.
In fondo la vita è un bellissimo, divertente, incasinatissimo gioco, pensò.

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