Martin prosegue nella sua "indagine" e riscopre giochi e luoghi della sua infanzia. Nostalgia o semplicemente bei ricordi da chiudere in un cassetto e custodire gelosamente?
A che cosa giochiamo?
“ A
che cosa giochiamo?” Era la domanda che quotidianamente ci ponevamo
allorquando, bambini, ci si incontrava.
E
la risposta (in un ambiente stimolante e ancora in parte da
esplorare), con l’aiuto della fantasia, non tardava a venire.
Ecco
una frasca per fare un capanno; una vecchia corda di canapa per
improvvisarsi cowboys; una piuma abbandonata di gallina per diventare
“Nuvola Rossa”; un palo piantato lì, per impostare una danza del
fuoco.
Ogni
cosa andava bene: un prato diventava una prateria; la legnaia un
nascondiglio dal quale spiare senza essere visti; un sottoscala o una
soffitta teatro per allestire scene da commedia all’italiana.
Persino
i tappi metallici delle bottiglie, di cui andavamo freneticamente
alla ricerca in ogni angolo della casa, diventavano pedine da colpire
con il dito nelle appassionanti gare sportive organizzate sui
tragitti asfaltati delle terrazze o dei corridoi.
E
un ripostiglio chiuso da una tenda era il luogo ideale dove
appartarsi con l’amichetta del cuore, per simulare (imitandole)
scene di vita coniugale. Tutto, con la fantasia e la creatività era
possibile.
I
desideri, come da una lampada di Aladino diventavano, quasi sempre e
quasi subito, realtà.
Anche
quando i mezzi o i luoghi erano davvero scarsi, riuscivamo
addirittura a giocare, giocando ad inventarli!
E’
indubbiamente retorico chiedersi se oggi sia ancora così: certo che
non è più così, o… proprio così. Eppure, i bambini di tutto il
mondo, quando si trovano assieme, ancora si domandano: “A che cosa
giochiamo?” E se ciò che manca loro per realizzare qualche
desiderio lo trovano in realtà diverse e diversamente strutturate
rispetto a quelle di una volta, l’esigenza di fondo rimane: un
grande, irrinunciabile bisogno di giocare, da soli o in compagnia”
A
Martin di giocare da solo non passava neppure per l’anticamera del
cervello, quindi decise di portar con sé la paziente Jamila per un
sopralluogo nei luoghi della sua infanzia, ispirato dalle sagge
parole del Professor Battirani.
La
giornata era ideale: soleggiata, ma non afosa. Armati di bicicletta i
due percorsero buona parte delle piste ciclabili che si snodavano
lungo la città e raggiunsero la viuzza dove il buon Martin aveva
avuto i natali ed aveva passato buona parte della propria giovinezza.
Dopo
aver pedalato lungo un viale costeggiato da ombrosi tigli,
raggiunsero finalmente la metà. Jamila ne approfittò per dissetarsi
dalla borraccia in dotazione alla sua mountain bike. Martin avrebbe
dovuto accorgersi di quanto fortunato fosse ad avere quella splendida
donna al suo fianco, in quella giornata radiosa, ma sfortunatamente
era tutto immerso nei suoi pensieri e il mondo circostante si era
fatto improvvisamente ovattato e privo di significato.
Martin
era attanagliato da una stranissima sensazione che gli costringeva il
petto:
un
misto tra fortissima curiosità, che gli elettrizzava tutte le
membra, e la paura di rimanere deluso dalla visione di un piccolo
mondo, che in tanti anni di assenza aveva in qualche modo
idealizzato.
Tirò
un paio di forti respironi, chiuse gli occhi, e girò l’angolo.
Quindi
riaprì le palpebre lentissimamente, o così almeno gli parve. La via
gli si stagliò davanti e risuonò subito familiare, anche se
maledettamente più stretta e meno estesa di come i suoi ricordi di
bambino gliela indicavano. Quella lingua d’asfalto che per intere
giornate aveva percorso in bicicletta simulando inseguimenti
polizieschi, Giri D’Italia e Parigi Dakar varie era poco più lunga
di cento metri anche se a lui erano sempre parsi chilometri.
Scese
dalla bicicletta ed iniziò a guardarsi intorno, con la fedele Jamila
al suo fianco che lo seguiva silenziosa, comprendendo l’attimo di
piccolo shock emozionale.
Le
case che costeggiavano la via erano rimaste sempre quelle, i numerosi
cani che abbaiavano, latravano e mugolavano avevano mantenuto la
consuetudine di questa particolare colonna sonora anche se con buone
probabilità i vocianti animali domestici che Martin ricordava erano
passati a miglior vita.
Ad
un certo punto Martin si accorse che qualcosa non quadrava: c’era
uno spazio vuoto di troppo all’altezza del vecchio noce. Ma certo!
Era la canonica posizione della folkloristica Simca 1000 color blu
elettrico. Martin aveva sempre ignorato chi ne fosse il legittimo
proprietario, ma il vetusto automezzo faceva parte del suo personale
arredo urbano e il fatto che non fosse più presente lo disturbava
come avrebbe spazientito un fedele che entrato in chiesa l’avesse
trovata priva di crocifisso.
Proseguì
ancora per qualche passo in quell’ universo così familiare e così
stranamente lontano.
Notò
con vivo disappunto che il pino sul quale si arrampicava da piccolo
era stato sostituito con un ornamentale ma molto più esile carpino,
sicuramente poco adatto ai novelli Tarzan.
Si
sedette sul muretto di pietra che circondava il condominio dove era
nato. Una volta sarebbe stato molto più circospetto: era matematico
che sedendosi lì avrebbe inzaccherato di resina i pantaloni, ma ora
qualcuno recidendo l’amata pianta ( che peraltro la maggioranza
delle altre persone avrebbe trovato francamente orribile) aveva
eliminato il problema alla radice.
“
Sai arrampicarti sugli
alberi? “ – chiese Martin a Jamila
Lei
sorrise.
“
Veramente no. Forse non ho
mai trovato nessuno che me lo insegnasse. Vuoi provarci tu ?”
Martin,
notoriamente acuto, e capace di percepire a distanza ogni minimo
sottinteso si lanciò in un’ ardita disquisizione sulle motivazioni
che facevano preferire l’arrampicata su un vigoroso pino. E
raccontò com’era bello scalare lungo la corteccia per andare a
vedere i piccoli uccellini all’interno del loro nido.
Jamila,
tra lo sconfortato e l’intenerito, decise di tappargli la bocca con
un profondo bacio.
Martin
rimase piacevolmente sorpreso e ringraziò mille volte il vecchio e
probabilmente defunto pino.
“
Raccontami un po’ che
facevi qui quando eri un piccolo moccioso” – chiese Jamila.
Martin
che non aspettava altro, la guardo grato e quindi esplose come il
tappo di una bottiglia di champagne a lungo scossa.
“
Questa è stata una vera
palestra di vita. Tutti i bimbi e i ragazzi della via si riunivano su
quegli scalini che vedi laggiù, il vero centro catalizzatore di
tutta la via. Quindi c’era una specie di gerarchia stabilità
dall’età: i più piccoli ascoltavano i più anziani imparando un
sacco di cosee talvolta prendendole in maniera salutare per essere
stati troppo seccanti o fastidiosi. In ogni caso poi c’era sempre
qualcosa di avventuroso da fare tutti assieme”.
Martin
amava scorazzare sulla sua adorata bicicletta rossa inseguendo
criminali o organizzando gare ciclistiche all’ultimo respiro. Non
c’era giorno che non tornasse a casa con le ginocchia sbucciate,
frutto di rocambolesche cadute. Al giorno d’oggi sarebbe stata
materia di consulti al pronto soccorso, ma in quei casi con due
scappellotti e una passata magica di disinfettante passava tutto e si
era nuovamente abili per lanciarsi in altre corse mozzafiato. Una
prova particolarmente divertente consisteva nel lanciarsi, sempre con
l’amato velocipede, dalla famigerata “Officina”.
Si
trattava appunto di una piccola officina di meccanica di precisione
che era situata su un livello rialzato rispetto alla sede stradale.
Il dislivello era di un paio di metri, colmato da alcuni scalini.
Saliti gli scalini c’era uno spiazzo di una decina di metri sul
quale si poteva prendere la rincorsa. Lo scopo della dilettevole
attività era quello di buttarsi a capofitto cercando di atterrare in
posizione possibilmente verticale, senza centrare nessuno scalino ed
evitando anche il pregevole muro di cemento che ti si parava di
fronte una volta toccato il suolo felicemente.
Un’attività
che avrebbe fatto inorridire qualsiasi mamma moderna e che avrebbe
riscosso successo in uno di quei programmi con gli stunt man che ogni
tanto si vedono sul tubo catodico. Il tutto ovviamente senza nessun
tipo di protezione.
Ovviamente
se ritornavi a casa con qualche segno a causa di quest’assurda
peripezia, l’incoraggiamento massimo che il circolo familiare
poteva attribuirti era quello di “sveiabauchi”.
Martin
finendo di raccontare a Jamila l’anedotto rabbrividì e si scoprì
genitore apprensivo: se suo figlio avesse osato fare quelle cose lui
non avrebbe dormito di sicuro.
Fortunatamente
c’erano anche passatempi meno pericolosi per l’incolumità dei
giovani pordenonesi. Ogni tipo di attività sportiva vista in tv
poteva essere facilmente emulata all’aperto. Partivano quindi
tornei di ogni sorta: si tendeva uno spago nello spiazzo tra i garage
ed ecco ottenuto un tempio del tennis come il Roland Garros. Le
disfide potevano durare delle ore con l’unico inconveniente di una
sosta inaspettata per permettere a qualche automobile di
parcheggiare. Nello stesso spiazzo era stato appeso un canestro per
permettere di emulare gli eroi della NBA che all’epoca erano Magic
Johnson, Larry Bird e il giovane e funambolico Michael Jordan.
Ovviamente
gli sport più strani ottenevano successo per il loro sapore esotico:
quindi, in mancanza di materiale regolamentare, la gamba di una sedia
diventava un’ottima mazza da baseball, un qualsiasi pallone era
sufficiente per trasformarsi in un quarterback dell’ NFL e il
tavolo della cucina, trasportato in giardino mutava magicamente in un
tavolo professionale da ping pong.
Di
sicuro non poteva mancare lo sport nazionale, ovvero il calcio.
Per
fare due tiri era sufficiente dividersi in squadre (che talvolta
potevano essere composte da una singola unità) ed usufruire delle
porte naturali che il territorio metteva a disposizione. Si trattava
di due capitelli che adornavano l’ingresso del summenzionato
condominio e di un portone in metallo pesante che portava alla
succitata officina. Peraltro quest’ultimo manufatto se importato
direttamente in Serie A avrebbe eliminato il problema della moviola e
del gol fantasma: infatti ogni volta che veniva colpito dalle
pallonate produceva un clangore pazzesco che faceva impazzire di
gioia sia il marcatore che i condomini che magari si stavano godendo
una meritata siesta pomeridiana. In ogni caso non c’erano
discussioni possibili: era indiscutibilmente gol….
Ma
un siffatto campo da gioco presentava anche degli inconvenienti non
da poco. Oltre al terreno asfaltato e sassoso che rendeva
scartavetrato chiunque vi atterrasse dopo aver subito un vigoroso
tackle, c’era il problema delle abitazioni circostanti.
Fortunatamente non c’era memoria di vetri rotti o altri danni
materiali, ma era pressochè matematico che almeno una o due volte
per partita la palla finisse nel famigerato campo confinante con
l’officina, ovviamente recintato. L’entrata ufficiale,
altrettanto ovviamente, distava circa un chilometro e quindi il
malcapitato che vi aveva spedito la palla tentando un tiro di
controbalzo Maradona style doveva utilizzare l’entrata alternativa.
In sostanza si trattava di scavalcare la recinzione, di quelle di
plastica verde piene di infide spuntoni, usufruendo del muretto che
la sosteneva.
Inutile
dire che i pantaloni o pantaloncini dello sventurato, nove volte su
dieci venivano irrimediabilmente attratti dalla recinzione e unendosi
con lei in uno strano e casto amplesso aprivano, solitamente nella
zona del cavallo, uno squarcio irreparabile.
C’era
però anche un campo ufficiale per le sfide più importanti: si
trattava del piccolo spiazzo verde che si trovava nella parte
retrostante il condominio.
Nonostante
fosse minato da infide e spezza caviglie tane di talpa, sembrava un
vero campo da calcio in miniatura.
Ora
Martin lo stava rimirando seduto con Jamila sul naturale spalto
costituito dalla zona dove le donne del palazzo stendevano la
biancheria, e dove un tempo le numerose supporters venivano ad
incitare i giovani gladiatori che si battevano in quella disfida
pedatoria.
Ancora
non riusciva a capacitarsi del fatto che proprio in quel minuscolo
lembo di verde, circondato da siepi di pino che ne delimitavano i
naturali confini, una ventina di ragazzini vocianti potessero
inseguire un pallone.
Eppure
si ricordava benissimo come la squadra della via giocasse lì le
partite contro le “selezioni” delle vie circostanti: due mattoni
a delimitare le porte e via a tirar calci, non badando troppo al
fatto che si colpisse il cuoio o lo stinco del nemico.
Trasognato
e immerso nei ricordi di quei giorni di gloria sportiva, gli unici
della sua intera esistenza ( anche se in quel momento in un anfratto
dellla sua memoria ci fu un fugace ricordo che lo designava come
roccioso difensore dai piedi non propriamente delicati, ricordo
ovviamente immediatamente respinto), Martin si riscosse trovandosi
disteso con Jamila tra la (poca) erba di quello che un tempo era
stato il suo personale Maracanà.
Prese
una delle margherite che crescevano lì attorno. Una volta erano meno
numerose. Probabilmente non c’erano più molti calciatori in zona.
In ogni caso adagiò delicatamente una margherita tra i capelli di
Jamila e poi colto da un impeto da esploratore botanico le soffiò
sul viso il fiore di un soffione, pianta che solo in età adulta
aveva scoperto avere il nome molto scientifico, ma molto poco poetico
di Tarassaco.
Jamila
rise.
“Ehi,
hai altre cose da insegnarmi sui fiori caro il mio Linneo?”
“ In
realtà sì, mia adorata. Hai mai provato ad assaggiare questi
fiori?”
Jamila
lo guardò dubbiosa
“Dai
tranquilla, non ti avveleni. E da quando sono nato che li succhio”
“
Proprio questo mi preoccupa!”
– ribattè asciutta lei.
Per
tutta risposta Martin inizio a succhiare i petali del fiore viola che
aveva davanti. In realtà non ne sapeva il nome e non sapeva neanche
se fosse velenoso o meno. Assomigliava ad un cardo in miniatura.
Fatto sta che fin da bambino i più grandi gli avevano insegnato che
era una pianta della quale ci si poteva fidare e quindi forte di
questa lezione continuava la tradizione decennale di mangiatori
inconsapevoli di piante misteriose.
Un
tempo, per la soddisfazione, quelle piante assumevano, di volta in
volta, sapori fantastici.
Ora
Martin rimase deluso dall’insipido sapore che gli riempiva il
palato.
“
Sei cresciuto, Martin. Non
sei più un bambino” gli disse la consueta e petulante vocina
interna che Martin calcolò come il due di coppe a briscola.
Jamila
lo riportò alla realtà.
“ Ma
eravate sportivi tutto il giorno? Non facevate mai niente che potesse
andar bene ad una signorina?”
“ A
parte il fatto che le signorine che erano presenti in zona erano
eccezionali calciatrici e cicliste…” – tentò quasi di
giustificarsi Martin.
Ricordandosi
poi delle parole scritte dal Professor Battirani meditò sul fatto
che non si era mai appartato con nessuna delle sue amiche di
infanzia, nè per imitare scene di vita coniugale, nè per giocare al
dottore. Conoscendo le fanciulle che lo circondavano aveva fatto
bene: con tutta probabilità se avesse tentato un simile tipo di
approccio avrebbe ricevuto in cambio un solenne sganassone che lo
avrebbe segnato a vita nei rapporti con l’altro sesso.
Riflettè
un attimo su quali altri suoi giochi di infanzia potevano essere
considerat unisex, o, almeno, più adatti a delle signorine. L’unico
che gli venne in mente fu un superclassico di tutte le epoche: il
nascondino.
Ricordava
con precisione tutti i più strani nascondigli nel quale si era
nascosto. I migliori erano quelli nella zona garage, anche se Martin
aveva dovuto smettere di andarci a causa di alcuni sogni terrificanti
che aveva iniziato a fare.
Infatti
per un periodo, probabilmente aiutato dalla dieta della mamma
particolarmente dietetica e leggera, era stato preda di incubi
spaventosissimi che lo vedevano inseguito, per motivi ignoti,
dall’arrotino che ogni mattina vedeva affilare coltelli di fronte
al cortile della scuola. L’ individuo dalla lombrosiana basetta lo
braccava nottetempo in zona garage armato di temibile coltellaccio.
Ai
posteri non è dato sapere il movente di questi efferati
inseguimenti.
D’altronde
qualcuno avrebbe dovuto dubitare della stabilità mentale di Martin
fin dal momento in cui, pargolo di sette-otto anni, non perdeva una
puntata di “Chi l’ha visto?” prendendo accuratamente appunti in
un apposito taccuino, per essere sempre pronto a compiere il proprio
dovere di buon cittadino in caso di avvistamenti sospetti.
Il
nascondino gli aveva riportato alla mente anche le fantasiose conte
che utilizzava con i suoi amici per decidere chi doveva “stare
sotto” e cercare tutti gli altri.
Curiosamente
anche Battirani ne parlava in una parte del suo saggio:
Ciò
che piuttosto non è abbastanza (o non lo è del tutto) praticata
oggi nelle scuole è tutta quella ricchissima serie di attività
ludiche “tradizionali” di facile attuazione, (in quanto poco o
nulla strutturate) ma assai efficaci, formative e gradite ai bambini.
Ci riferiamo ai numerosi, semplici, ma significativi e coinvolgenti
giochi della nostra (e non solo nostra) “tradizione popolare”.
Quelli,
per intenderci, “che non serve andare a scuola” per imparare in
quanto ci sono stati tramandati di generazione in generazione, tra i
singoli componenti della famiglia e da una famiglia all’altra. Il
fenomeno è abbastanza preoccupante, al punto da far pensare ch un
po’ di innossidabilità quei giochi pur così divertenti e
istruttii, l’abbiano persa per strada.
Ed
erano le fantasiose “conte” che facevamo in gruppo per stabilire
chi doveva “star sotto”, dalle quali apprendevamo,
inconsapevolmente, un intero “programma di educazione linguistica”
(linguaggio mimico-gestuale compreso) e alle quali ci sottomettevamo
liberamente poiché la decisione consegnata alla sorte metteva tutti
più o mrno d’accordo.
Nel
ripeterle poi si esercitava la memoria (oggi tanto scarseggiante);
impegnando l’attenzione nel seguire la sequenza, si acquisivano
inoltre importanti requisiti e prerequisiti matematici e financo
canori. Quando poi alla conta o alla filastrocca si associava il
movimento, allora l’espressione corporea si faceva “danza”.
Martin
fece rapidamente mente locale. Nella sua mente si affollava una ridda
di vecchie conte. Non aveva mai amato particolarmente la classica
Ambaraba Cicci Coccò, anche se lo aveva sempre incuriosito il fatto
che le civette sul comò copulassero con la figlia del dottore. In
ogni caso gli pareva una naturale conseguenza che il dottore cadesse
malato dopo aver fatto quella terrificante scoperta sulla vita
sessuale della propria erede.
Il
suo idolo incontrastato era sempre stato il celeberrimo Ciccio Bomba
Cannoniere, che, a seconda delle versioni, provvedeva ad eseguire i
propri bisogni corporali all’interno di un bicchiere destinato alla
prematura rottura, oppure era stato dotato da Madre Natura di tre
pertugi rettali.
Anche
i personaggi di Walt Disney non uscivano immuni dall’incontro con
Martin, ma mentre Paperino era un innocuo tabagista, molto geloso
della sua pipa, Pippo si riscopriva petomane e con le proprie
eruzioni di simpatia faceva scoppiare in ordine Giappone, Francia o
uno sventurato bambino nel caso i suoi prodotti odorassero
rispettivamente di limone, arancia o caffè.
Martin
rideva a crepapelle ogni volta che riproponeva la conta, anche se in
cuor suo avrebbe pagato perché le puzzette sue e dei suoi amici
avessero avuto degli olezzi così delicati.
Infine
c’era quella da sfoderare quando si doveva assolutamente evitare di
stare sotto.
La
micidiale arma prendeva le vestigia di una innocua macchinetta rossa
che ogni volta cambiava direzione. Se si era abbastanza scaltri si
riusciva ad eliminare i più pericolosi concorrenti facendo compiere
un giusto numero di chilometri. Se si era compiuto un errore di
calcolo c’era in ogni caso l’elegante scappatoia rappresentata
dalla tiritera “ Tocca proprio a te, un, due,tre” che permetteva
di pilotare abbastanza agevolmente i sorteggi.
Martin
si riscosse accorgendosi di aver girato in tondo come la citata
automobilina rossa. Guardò Jamila che lo osservava ridendo divertita
e sperò di non aver imitato, nell’enfasi del momento, Pippo o
Ciccio Bomba Cannoniere.
Dato
un rapido sguardo attorno non vide cocci di bicchieri passati a
miglior vita e si rasserenò.
Quindi
passò al contrattacco.
“E
tu, mia cara, che conta usavi quando eri piccina?”
“Io
non ho la tua stessa memoria ferrea. Comunque una me la ricordo.
Faceva così:
Waahid
itnayn talaata
Ammo
Husssein shahata
Baa
ishocolata
Bisilya
ya bisilya
Yaish
baba wa bàa
Wa
khalee yizra innab'a.”
Martin
rimase estasiato dalla musicalità che usciva dalla bocca di Jamila.
“Bella,
suona proprio bene. Che significa?”
“
Più o meno dice così:
Un,
due, tre
Lo
zio Hussein è un mendicante
Venditore
di cioccolata
Piselli
o Piselli
Fate
che il babbo viva e stia bene
E
possa piantare il nab’a”
“ Io
continuo a preferire Ciccio Bomba… Poi cos’è il nab’a?”
Jamila
lo guardò come dovesse fare una rivelazione fondamentale.
“Non
ne ho la più pallida idea!” disse ridendo
Nel
frattempo, mentre stavano tornando sul davanti del caseggiato
sentirono voci e frastuono. Martin vide, con un certo compiacimento,
che non era l’unico ad aver sacrificato dei pantaloni alla perfida
recinzione. Vide due bimbi di colore affaccendarsi attorno al
malefico reticolato verde nella speranza di poter recuperare un
pallone incautamente sfuggito.
“
Chissà quei bimbi quale
filastrocche hanno portato qui dall’Africa” disse sottovoce a
Jamila.
Nel
contempo uno dei due ragazzini proruppe in un
“Ou
Dennis, sei proprio un brombol!”
Martin
ci pensò su. Difficilmente avrebbe potuto ottenere qualche esotica
conta dai due giovani.
Al
massimo qualche episodio folkloristico.
Inequivocabilmente
pordenonese.
Nessun commento:
Posta un commento