Il Maestro e Margherita
Il
Maestro e Margherita. Martin pensò che il titolo del romanzo di
Bulgakov si sarebbe potuto benissimo adattare per fare la didascalia
esplicativa del quadretto che aveva ritrovato in casa Battirani e che
gli aveva permesso di raggiungere il Professore.
Nella
foto si vedeva il Professore circondato da uno stuolo di ragazzini
che lo ascoltavano rapiti seduti sull’erba. Battirani dal canto suo
era seduto con la moglie su di un piccolo masso che recava incisa
l’iscrizione “ Sass De La Regina 1881 – 1882”.
“
Si trattava della Regina
Margherita di Savoia. Si proprio quella della pizza “ – spiegò
paziente Battirani – “ a quanto pare, durante l’estate,
soggiornava in quegli anni a Perarolo, ospite di famiglie nobili
veneziane che avevano stabilitò quassù il loro buen ritiro “.
“ E
come mai le hanno dedicato questo piccolo sasso, invece che un più
regale monumento” – chiese Martin incuriosito.
“ A
quanto sembra la regina portava qui a Caralte il piccolo Vittorio
Emanuele III a fare questa passeggiata tra i boschi. La leggenda
narra che le nobili scampagnate terminassero in questo punto con una
sontuosa merenda. Un’altra versione, forse meno regale, ma
ugualmente interessante, a mio parere, sostiene che su questo masso
la Regina, affaticata da tanto camminare, si accomodasse per
espletare alcuni suoi irrinunciabili bisogni fisiologici “.
Martin
sorrise al pensiero dell’ austera Regina alle prese con un
ingombrante e svolazzante vestitone di fine ottocento che mal si
adattava ad una passeggiata montana e soprattutto ad un’
evacuazione d’emergenza.
“
Portavo quassù i bambini
perché mi pareva che a contatto con la natura fossero più liberi e
contenti di imparare che non quando erano rinchiusi tra quattro mura.
Poi ogni volta l’ambiente circostante era pieno di nuovi spunti.
Venga voglio farle vedere una cosa”.
Il
Professore condusse Martin lungo quello che un tempo doveva essere un
pendio molto scosceso e che ora aveva preso forma di strada
asfaltata, più comoda, ma sempre molto ripida.
Sulla
destra della carreggiata scorreva un piccolo torrente, mentre alla
sinistra c’era una grossa parete rocciosa, bucherellata da caverne
ed anfratti che la facevano somigliare ad un pezzo di Emmenthal.
“ Ha
mai sentito parlare delle Agane?” – chiese Battirani.
Martin
fece un’espressione che lasciava intendere che per quanto lo
riguardava poteva trattarsi di una specialità gastronomica quanto di
un animale preistorico.
“ Si
tratta di esseri mitologici: più o meno fate della mitologia
celtica, ovviamente bellissime e bionde che si dice vivessero nell’
acqua e riemergessero per lavare i vestiti insanguinati dei guerrieri
morti in battaglia. “
Martin
lo stava ascoltando interessato come un bambino dell’asilo.
“ Io
portavo di notte qui i bambini per quella che chiamavo «prova di
coraggio». Sa il vento che si infila in quegli anfratti produce dei
suoni veramente particolarissimi. Io dicevo ai ragazzi che quelle che
sentivano erano le voci delle Agane che stavano malinconicamente
lamentandosi per la triste sorte dei loro giovani guerrieri “.
“
Non le sembrava di fare una
cosa crudele? Poveri bimbi me li immagino atterriti…” –
intervenne Martin.
“
Diciamo che li preparavo a
quello che la vita avrebbe potuto di lì a poco riservar loro. Non
dovevano avere paura. Era una cosa assolutamente naturale.
Non
si devono temere le cose naturali, quanto piuttosto le mostruosità
create dall’uomo “.
Quando
faceva il sofista Martin faceva fatica a reggere il Professore. In
ogni caso poteva perdonargli quelle tirate considerando quante ne
aveva passate quell’uomo. Cercò quindi di cambiare discorso,
sperando di poter affrontare argomenti più facilmente digeribile.
“
Professore, le andrebbe di
raccontarmi come mai si è stabilito a Pordenone nel dopoguerra? “
“ Ha
ragione, giovanotto. Glielo devo. In fondo è venuto su fin qua
proprio per questo. Se è riuscito a ritrovarmi e mi ha sopportato
finora, merita di conoscere la storia fino in fondo. “
Proseguirono
a camminare lungo il sentiero boscoso fino a raggiungere un piccolo
dondolo protetto dagli alberi nella zona del campo sportivo.
Si
sedettero e Battirani riprese a raccontare quell’affascinante ed
intricato racconto che era quello della sua esistenza.
“
Vede, l’organizzazione che
si era occupata del Progetto Manhattan non vennè smantellata alla
fine del Secondo conflitto mondiale. Il pericolo era ora
rappresentato dall’ enorme e comunistissima Unione Sovietica.
L’ordine era quello di produrre armi sempre più potenti e
sofisticate per proteggersi dalla minaccia russa. Il progetto
successivo sarebbe stata la bomba ad idrogeno, sotto la supervisione
di Edward Teller.”
“ E
lei non se la senti di continuare a collaborare ad un simile
progetto…”
“
Esattamente. Come si suol
dire: errare è umano, ma perseverare è diabolico. “
“ E
quindi? “
“ E
quindi chiesi di poter tornare in Italia. In realtà non sapevo bene
neanche io dove visto che mi ero ripromesso di non ritornare più a
Roma e che quindi non avevo ne casa, ne tantomeno lavoro. Mi
proposero di continuare a lavorare per la US Airforce, a condizione
di non avere niente a che fare con la produzione di armi. Venni
trasferito quindi in Europa alla base aerea di Wiesbaden. “
“Wiesbaden
?”
“Si.
E’ un paese vicino a Francoforte sul Meno dove venne stabilito il
quartier generale dell’ Aeronautica Statunitense in Europa. Qui
facevo il maestro per i figli degli operai italiani che alla fine
della guerra avevano trovato lavoro all’interno di questa
struttura. “
“
Per quanti anni rimase lì ?
“ - chiese Martin
“Quasi
sei. Poi ci fù l’occasione di ritrasferirsi in Italia. Stavano
infatti aprendo una nuova base americana. Lei la conosce bene: era
quella di Aviano.
Per
ironia della sorte stavo rifuggendo dai fantasmi della bomba atomica
e mi ritrovai a vivere con una cinquantina di ordigni nucleari ben
nascosti sottoterra nel suolo sopra il quale quotidianamente
passeggiavo “
“
Deve essere stata una
situazione per niente rassicurante “
“
Non lo era e non lo è
neanche ora. Pensa davvero che se succedesse qualcosa all’interno
della base, rimanga qualcosa di vagamente simile alla vita da lì
fino a Udine? “ disse severo Battirani.
Martin
rabbrividì. Ad essere sinceri, non aveva mai pensato ad una simile
eventualità. Aveva sempre visto la Base come una caratteristica
naturale di quel territorio. Un luogo che faceva confluire nella
provincia pordenonese una massa di pittoreschi yankee e al massimo
disturbava il vivere quotidiano con i decolli e i tuoni che si
sentivano dopo l’accensione dei post bruciatori dei caccia.
In
effetti non aveva mai sopportato il cosiddetto turismo di guerra, che
si sostanziava in migliaia di cretini che affollavano le strade nei
pressi della base.
Questa
marea di insensati giungeva (addirittura in corriera ! ) da ogni
parte di Italia e si sistemava a fare dei picnic sul ciglio della
strada che conduceva alla Pedemontana. Madri, figli e addirittura
nonni si appostavano armati di binocolo in una mano e di panino alla
mortadella nell’altra, con la speranza di cogliere il decollo di un
velivolo armato di tutto punto che, per la cronaca, si apprestava a
bombardare e in alcuni casi uccidere, altri esseri umani, spesse
volte innocenti ed assolutamente inconsapevoli di quello che stava
capitando.
“ Ha
ragione “ – disse come riscuotendosi Martin “ Lei quindì
lavorò a lungo presso la Base?”
“
No. Me ne andai quasi subito.
Come forse potrà immaginare ne avevo avuto abbastanza di vivere
negli ambienti militari. Mi trasferìi a Pordenone nella casa di
Torre che lei, visto che è qui, ha sicuramente avuto modo di
visitare “
Martin
annuì.
Il
Professore continuò a raccontare della propria vita quotidiana e di
come fosse riuscito a trovare impiego quasi subito impiego come
professore in uno degli istituti cittadini.
“
Qui avvenne però un dramma
del quale ancora non riesco a capacitarmi “
Martin
rimase confuso. La sua mente vagava già alla ricerca di qualche
fatto di cronaca che riguardasse il Professore. Si affacciarono le
più incerdibili supposizioni, ma non ci fu nessuna illuminazione
decisiva. Aveva letto tutto il fascicolo riguardante Battirani che
gli aveva consegnato Leo. Possibile che fosse successo qualcosa che
era sfuggita anche alla polizia? Martin restò in attesa,
incuriosito.
“ In
quel periodo io e Sara “ – riprese Battirani – “ stavamo
cercando con parecchia insistenza, devo dire, di avere un bambino, ma
senza successo. Ci rivolgemmo allora ad uno specialista. All’epoca
la tecnologia in quel campo era ovviamente molto arretrata, specie se
confrontata con le conoscenze attuali.
La
risposta fu sconfortante: ero sterile e non avrei potuto mai coronare
il mio sogno di avere un figlio dalla donna che amavo”
Battirani
si interruppe. Aveva un nodo alla gola.
“
Decisi quindi di dedicarmi
anima e corpo all’insegnamento. Avrei cercato di far crescere in
modo responsabile i figli degli altri, facendo loro capire quanto
fosse importante vivere in pace e godersi ciò che il mondo mette
loro a disposizione.”
“ Mi
dispiace, veramente “ - disse con un filo di voce Martin, cercando
di portare un po’ di solidarietà umana a quell’essere umano così
provato. “ Ed è per quello che ha iniziato a scrivere l’opera
che poi abbiamo ritrovato? “
“
No. In realtà la molla che
ha fatto scattare in me la voglia di esprimere per iscritto ciò che
sentivo è scattata più tardi in seguito ad un altro accadimento “
“ Ho
scoperto casualmente che una comissione senatoriale USA aveva
desecretato dopo 50 anni documenti riguardanti le Fabbriche
Invisibili di Oak Ridge, Hanford e Los Alamos, ovvero quegli impianti
presso i quali avevo lavorato negli anni del Progetto Manhattan.
Si
venne così a sapere che i morti delle bombe non furono solamente
giapponesi.
I
rifiuti nocivi prodotti in queste fabbriche e direttamente scaricati
nei fiumi o nel sottosuolo e la prolungata esposizione alle
radiazioni richiesero un pesante pedaggio anche a coloro che nelle
fabbriche lavoravano.
Il
governo americano sapeva i rischi ai quali questi lavoratori andavano
incontro, ma decise vigliaccamente non solo di non informarli, ma
addirittura di utilizzarli come cavie per verificare quale fosse
l’effetto delle radiazioni sugli esseri umani.
Un
documento veramente terrificante ed agghiacciante.
Io
fui tra i più fortunati: sono ancora qui a raccontarle la mia
storia, anche se non ho potuto provare la gioia della paternità.
Molti altri sono morti in maniera orribile di cancro o altre malattie
connesse all’esposizione alle radiazioni. Altri ancora hanno avuto
figli deformi o handicappati.
Ho
deciso di scrivere il libro che lei ha citato non solo per lanciare
un grido d’allarme, ma anche per provare a far crescere una
generazione migliore che non ricada nei nostri stessi errori.
Lo
so, amico. Lei crede che questa mia missione sia utopica, ma
d’altronde nella vita talvolta si va avanti perché ci sono sogni e
traguardi da perseguire, non crede? “
Martin
resto inebetito. Non era in grado di dire alcunchè.
“ So
che lei è uno dei nostri. Fa parte della categoria dei sognatori.
Altrimenti non avrebbe mai sprecato tutto questo tempo per trovarmi e
non avrebbe avuto tutta questa pazienza nell’ascoltare gli strambi
vaneggiamenti di un vecchio “.
Battirani
si alzò. Sembrava sollevato dall’aver condiviso la propria storia
con qualcuno.
“
Che fa? Vuol restare
inchiodato a quella panchina per il resto della sua esistenza? “ –
chiese il Professore con un sorriso bonario.
Martin
si alzò meccanicamente e lo seguì.
“
Che ne dice se le offrò una
cena per ripagarla della sua gentilezza? Conosco un posticino
delizioso nei pressi del Lago di Barcis. Visto che lei è
motorizzato, mi ci potrebbe accompagnare…”
Martin
acconsentì con piacere. Non aveva mai in vita sua rifiutato un
invito a cena e non avrebbe di sicuro cominciato quella sera.
In
men che non si dica si ritrovarono in macchina. Affrontarono le
infinite curve che il paesaggio proponeva con spensieratezza, fino a
raggiungere una minuscola locanda al centro della piccola cittadina.
Durante
la cena gli argomenti, grazie anche all’ottimo vino rosso della
casa, si fecero più leggeri e spensierati e Martin potè apprezzare
anche la verve comica del Professor Battirani.
Finito
di mangiare si ritrovarono sul lungolago, appoggiati al lungo
corrimano di legno. L’ unico bagliore di luce era quello delle
sigarette che stavano fumando, silenziosamente.
L’acqua
del lago era placida e vi si riflettevano le migliaia di stelle che
il cielo vi proiettava in quella serata straordinariamente tersa.
Il
Professore spense la propria sigaretta e quindi si rivolse a Martin
che era perso nella visione della sfera celeste. Battirani sorrise:
aveva trovato proprio il personaggio più adatto.
“
Giovanotto “ – disse in
tono solenne – “ vorrei consegnarle l’ultima parte del mio
manoscritto. Se la porti a casa, così potrà leggerla con calma “.
Estrasse
quindi dalla tasca dell’impermeabile una piccola busta color ocra,
in tutto simile a quella che gli aveva a suo tempo consegnato Leo
Merlo. Martin non potè annusarla, ma immaginava che avesse lo
stesso, particolare, profumo.
Prese,
quasi imbarazzato, la busta e sussurrò un sommesso grazie. Si
sentiva come un discepolo inadeguato che riceveva rivelazioni
importanti da un maestro.
Battirani
lo sorprese nuovamente e lo abbracciò. La stretta era forte e
possente, sorprendente considerato che proveniva da un uomo che aveva
passato l’ ottantina.
“
Vada pure, ora “ – disse
Battirani.
Martin
lo guardò, senza capire.
“
Non vuole che la riportì in
paese “ – chiese.
“
Non si preoccupi. Mi piace
restar qui. Lei non sa quante nottate ho passato a scrivere su quella
panca “ – disse indicando una seduta preceduta da un tavolone,
ricavato probabilmente da uno dei grandi pini che circondavano il
lago.
“ Va
bene, come preferisce “ – disse Martin.
“
Ah, auasi dimenticavo. Le
avevo portato anche questo: lo ascolti ora in macchina. A proposito
lei capisce l’inglese vero? “
Martin
prese il CD che gli era stato passato da Battirani e lo rassicurò
della sua perfetta comprensione della lingua anglosassone.
Quindi,
preso atto della volontà del vecchio, lo salutò e si avviò verso
la sua macchina con la busta contenente il manoscritto in una mano e
il Cd nell’altra.
Cercò
con effetti quasi comici di aprire la portiera dell’auto, ma alla
fine uscì vincitore anche da quella battaglia.
Aprì
lievemente il finestrino per far passare un po’ d’aria. Mentre
percorreva la stradina che costeggiava il lago inserì il Cd nel
lettore. Un suono di ottoni malinconici riempì l’aria. Era una
canzone di Bjork. Martin si stupì che un uomo non più giovane la
conoscesse. Si aspettava un aria da qualche opera e invece rimase
piacevolemente sorpreso.
Si
concentrò ed iniziò ad ascoltare il cantato:
I
live by the Ocean
Martin
passò a fianco di Battirani che, appoggiato sul parapetto del
lungolago lo salutò agitando la mano
And during the night
La strada fece una curva
I
dive into it
Martin
si voltò preoccupato. Vide Battirani che scavalcava il parapetto.
Down
to the bottom
Martin
soffocò un urlo in gola, sterzando bruscamente per evitare di andare
a schiantarsi contro la parete rocciosa che costeggiava la strada.
Underneath all currents.
And
drop my anchor.
Dopo
l’ennesima doppia curva il lago era ormai scomparso. Sul volto di
Martin comparve invece, fuggitiva una lacrima.
This is where I'm staying
This
is my home.1
1
Vivo vicino all’ Oceano
E durante la notte
Mi ci tuffo
Giù, fino in fondo
Sotto a tutte le correnti
E lascio cadere la mia ancora.
Quì è dove starò,
questa è casa mia
( Bjork – The Anchor Song)
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