Camminare è un’attività che mi gratifica e, quando non faccio almeno quella decina di
chilometri al giorno che per lavoro solitamente percorro, sento che mi manca.
Camminare fa stare bene e ti salva, almeno per un po’ come sosteneva il grande
e mai dimenticato Andrea Spinelli che ne aveva fatto una cura e un modo di
vivere. Pur non avendo mai fatto un cammino vero e proprio i cammini mi
incuriosiscono parecchio e, prima o poi, sono convinto, ne affronterò uno. Per
questo ho apprezzato molto la lettura (anche se sarebbe meglio dire l’ascolto,
avendone fruito con Audible) di “Quel che resta di Santiago” (Sonzogno) libro
scritto da Diego Passoni e che prende spunto dall’aver percorso il Cammino
Portoghese che porta a Santiago. E, già da subito c’è un elemento di
discontinuità rispetto a molti altri libri del genere. Il cammino non viene
presentato sotto forma di performance da raggiungere (cosa che ha
fondamentalmente distrutto anche il modo di fruire ed intendere la montagna),
nè come esperienza istantanea da condividere via social né, tanto meno come
prova di vita che lo scrittore-guru tramanda per dare consigli sull’esistenza
con frasi prese direttamente dai Baci Perugina.E allora cosa dobbiamo aspettarci? Passoni racconta il percorso (tappa dopo
tappa) con onestà, mostrando sia la fatica fisica (vesciche, zaini pesanti,
dormire in luoghi scomodi) che le riflessioni interiori che emergono camminando.
Non manca la critica sottile — e talvolta esplicita — al mito del
pellegrinaggio oggi: alla “religione dei selfie,” all’eccessivo marketing, e
all’idea che ogni cammino sia automaticamente un’esperienza spirituale “oltre
le mode.” Passoni pare chiedersi: cos’è rimasto davvero di Santiago, al netto
delle aspettative turistiche e culturali? D’altro canto Diego presenta se
stesso come pellegrino poco ortodosso. E lo è davvero. Ma a modo suo da
tantissimi spunti che ognuno può utilizzare o sui quali può riflettere come
meglio crede. Allo stesso tempo fa vedere un background culturale e di
interessi veramente notevole, senza per questo farne uno sfoggio vanesio. Alla
fine la fatica del cammino e il suo lato poco romantico, le conoscenze fatte
percorrendolo e il paesaggio che ci vediamo passare a fianco ci pemettono di
guardarci dentro nella maniera più semplice e crudele possibile e se mettiamo
da parte l’ego e l’eroismo da impresa possiamo goderci la semplicità. Quella
stessa semplicità che permette al nostro viaggio di assumere una dimensione
quasi sacra e ci porta a recuperare una preziosa forma di essenzialità. Che ci
fa, semplicemente, stare bene.
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