Per la rubrica dei classici mi fa piacere riproporre “Il giorno della Civetta” di Leonardo Sciascia. Un
libro che ha più di sessant’anni (è stato pubblicato nel 1961) e che, al netto
dello stile di scrittura ovviamente differente da quello odierno, ha
incredibili elementi di modernità e meriterebbe di essere letto dai giovani.
Puntando soprattutto su quello che è l’intreccio giallo che, per stessa
ammissione di Sciascia “impedisce di lasciare il libro a metà”. La novità,
oltre al fatto che si parli apertamente di mafia, non in saggio, ma in un
romanzo, è che non si presenta la complessità della Sicilia con toni di
macchietta, ma lo si fa restituendone i colori e il sapore anche linguistico.
Strada che poi verrà apertamente percorsa, con grande debito, da Andrea
Camilleri con il suo Montalbano. Non esisterebbero Vigata e il suo universo se
Sciascia una trentina d’anni prima non avesse scritto questo romanzo.Come per lo scrittore agrigentino anche nel caso de “Il giorno della civetta”
lo spunto parte dalla vita reale, che poi viene romanzata. In una piccola
cittadina siciliana, in un giorno di lavoro, un piccolo imprenditore edile che
non ha voluto piegarsi alle logiche mafiose sul pizzo e sulla spartizione degli
appalti, viene freddato nella piazza principale mentre sta per salire su un
bus. Da qui si alza un velo di omertà. Nessuno ha visto, nessuno vuole intervenire.
A cercare di dipanare il bandolo della matassa è il Capitano Bellodi,
originario di Parma, che si immerge in una mentalità molto diversa dalla sua ed
è bravo a comprenderla. Ma scardinarla è difficile, se non impossibile, anche perché
la vicenda si dipana su due piani narrativi differenti. Da un lato l’inchiesta
di Bellodi e dall’altro i tentativi di sabotarla che non partono dall’isola, ma
direttamente dai palazzi del potere romano. Che permettono appunto che la
civetta, impersonificazione della Mafia, possa non solo agire nell’ombra, ma
anche operare in pieno giorno.
Come succederà in seguito con Montalbano, il personaggio principale non è il classico detective che risolve i casi con arguzia come Sherlock Holmes o Poirot. E’ piuttosto un Maigret che fa leva sull’umanità e sulla capacità di leggere le persone che ha davanti. E, altro elemento di modernità, i mafiosi non sono figure da cartolina come ne “Il padrino”, ma sono persone normali, per quanto sgradevoli che cercano persino di imporre una loro etica, seppure sbagliata e criminale. Il risultato è un insieme di contraddizioni che sembrano insanabili, un potere che appare inscalfibile. E il famosissimo monologo di Don Mariano Arena, quello diventato proverbiale, lo conferma, dando al Carabiniere l’onore delle armi.
Come succederà in seguito con Montalbano, il personaggio principale non è il classico detective che risolve i casi con arguzia come Sherlock Holmes o Poirot. E’ piuttosto un Maigret che fa leva sull’umanità e sulla capacità di leggere le persone che ha davanti. E, altro elemento di modernità, i mafiosi non sono figure da cartolina come ne “Il padrino”, ma sono persone normali, per quanto sgradevoli che cercano persino di imporre una loro etica, seppure sbagliata e criminale. Il risultato è un insieme di contraddizioni che sembrano insanabili, un potere che appare inscalfibile. E il famosissimo monologo di Don Mariano Arena, quello diventato proverbiale, lo conferma, dando al Carabiniere l’onore delle armi.
«Io ho una certa pratica del mondo; e quella che diciamo l'umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz'uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà… Pochissimi gli uomini; i mezz'uomini pochi, ché mi contenterei l'umanità si fermasse ai mezz'uomini… E invece no, scende ancor più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi…E ancora più giù: i pigliainculo, che vanno diventando un esercito… E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre… Lei, anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo, lei è un uomo…».
Bellodi, seppur sconfitto, non si arrende ai soprusi e alle false testimonianze e alle trame dei potenti e finisce per amare in maniera insanabile la Sicilia, una terra che gli entra profondamente dentro. Così fa lo stesso Sciascia, il cui amore per l’isola è chiaro, e che utilizza la scrittura come atto di profonda speranza per un cambiamento tangibile
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